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Verona, il bullismo, la violenza, il vuoto...Cosa dicono gli educatori?

Ultimo Aggiornamento: 05/10/2008 22:43
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Città: BOLOGNA
Età: 31
Sesso: Femminile
07/06/2008 22:29

LA DOMANDA DI RASSICURAZIONE PUÒ NON INVESTIRE I SERVIZI?
Riceviamo da Enrico Miatto (educatore del Veneto) questo contributo alla discussione, che volentieri pubblichiamo:

Uno dei cambiamenti più significativi che ha coinvolto i servizi in Italia e che ha contribuito a modificare il sistema di welfare in una prospettiva di welfare mix riguarda, di certo, la significatività dei servizi declinati in questi ultimi anni, nella loro specificità sanitaria e sociale, come servizi alla persona.
L’impegno delle politiche per la persona, nonché il lavoro teorico e pratico svolto a sostegno di questa evidenza rappresentata dalla congenericità dell’essere persona, ha permesso il superamento di approcci parcellizzati e talvolta riduttivi alla presa in carico delle problematiche che caratterizzavano chi ai servizi si dirigeva e ad oggi si rivolge.
Sullo sfondo di trasformazioni di carattere strutturale che hanno permesso l’affermarsi del principio di sussidiarietà e il consolidamento del lavoro sociale, è cambiata negli ultimi anni la modalità di attendere alla persona all’interno dei servizi.
Ciò perché, come si evince dalla prassi quotidiana del lavoro sociale e socio-educativo, la necessità di dare una istantanea risposta ai bisogni e alle emergenze personali non può trovare, sempre e comunque, una risposta immediata.
Credo che in questo senso si sia modificata qualitativamente la risposta che gli operatori del sociale riescono a dare ai bisogni complessi delle persone “utenti”. In altre parole, l’esigenza di superamento di un approccio medico focalizzato sul problema, ha progressivamente lasciato il posto a un più ampio modo di risposta dei servizi alle necessità delle persone in difficoltà.
Si è infatti riscontrato che, il riferimento a un più ampio raggio d’azione quale quello del progetto di vita o semplicemente la messa in atto di una prospettiva di rete in grado di coinvolgere la persona secondo logiche ecologiche dello sviluppo umano, è spesso funzionale ad una risposta più efficace ai bisogni della persona. È dire, a bisogni complessi e mai stati non tali, si è cercato di rispondere, in questi ultimi anni, in modo complesso attivando progressivamente le risorse del singolo e della comunità in cui vive.
La trasformazione avvenuta, del modo di dare risposta personalizzata ai bisogni di riconoscimento delle persone in stato di vulnerabilità, non ha tuttavia lasciato ai margini la difficoltà, né del lavoro di care, né tanto meno del lavoro educativo ancorato su una relazione significativa facente appello ai cardini principali di una relazione definibile come tale. Cardini questi, riconoscibili nella disposizione dell’uomo ad affidarsi e ad essere educato, nella responsabilità dell’educatore vocato (professionalizzato?) ad accompagnare l’educando nei suoi percorsi di realizzazione di sé, e nell’intenzionalità condivisa di un progetto da co-progettare in vista di un fine comune recuperabile nella traiettoria del benessere personale.
Sulla base di un mandato migliorativo dell’esistenza umana i servizi alla persona hanno perseverato nel dare risposta alle necessità personali. La convinzione che ha guidato tale agire, è rintracciabile nella consapevolezza che il riconoscimento dell’altro da sé è imprescindibile e che tale imprescindibilità non può non coinvolgere l’istituzione. Questo perché solamente il passaggio istituzionale è in grado di legittimare il lavoro sociale attraverso le pratiche di inclusione e il riconoscimento primo di una cittadinanza che da “passiva” si fa attiva.
Davanti ad un panorama dell’intervento sociale e socio-educativo, così brevemente ed ingenuamente descritto, prende avvio oggi una questione particolare relativa, per un verso ad una emergenza del momento, per l’altro ad una questione che sempre ha accompagnato il lavoro sociale ma che, con tutta probabilità, è stata gestita attraverso categorie di risposta identificabili con termini quali bisogno, necessità, emergenza, urgenza, impellenza, improrogabilità, ecc. Si tratta della questione della sicurezza.
La domanda che mi sorge, in merito a tale questione, va nella direzione del chiedere se la sicurezza rappresenta davvero una emergenza del momento o se, invero, è arrivato il tempo per ri-pensare il tema della sicurezza all’interno dei nostri servizi. Ri-pensarla, dunque, non tanto in termini di sicurezza pubblica, quanto in termini di sicurezza sociale e ancor di più di pubblica percezione di sicurezza sociale.
L’importante riflessione che Franca Olivetti Manoukian solleva, in merito al tema della sicurezza, ha a che vedere, a mio avviso, non tanto con il bisogno della sicurezza in sé, quanto con la necessità di rassicurazione che la nostra società in qualche modo esprime, attraverso le sollecitazioni quotidiane che emergono all’interno e soprattutto all’esterno dei servizi.
In tal senso, il ri-pensamento della questione della sicurezza in ordine al bisogno di rassicurazione derivante da una prospettiva sociologica che descrive ed interpreta il quotidiano umano secondo le categorie del rischio (Beck), della flessibilità (Baumann) e dell’io minimo (Lash), coincide con la necessità di orientare le pratiche di risposta personalizzata ai bisogni delle persone perseguendo, come sostiene Manoukian, una prospettiva dialogica.
Intraprendere tale prospettiva equivale a non banalizzare la questione della sicurezza, né tanto meno a stigmatizzarla o assecondarla. Significa, bensì, ri-pensarla a partire dai fondamentali della persona, tentando di migliorare e perseguire alcune piste di lavoro sociale ed educativo, ognuna delle quali, contribuisce a sviluppare e a sostenere l’identità della persona stessa.
Si tratta in primis della pista etica. Della questione dei valori che sostengono e sottendono le pratiche quotidiane dei servizi nei quali, lungo l’asse processo-prodotto, tipico delle organizzazioni profit, vi è la necessità di inserire percorsi e soprattutto di ancorare esperienze e vissuti personali a logiche di compliance e di sviluppo del sé.
In secondo luogo, una seconda pista è rintracciabile nella parola. Nelle prassi dialogiche e di ascolto che pretendono ridurre i vissuti personali a gruppi di esperienze seriali classificabili in virtù dell’empatia. In questo senso la pista della parola necessità di approfondire l’esperienza del dialogo, superando la soglia empatica a favore di una comprensione in grado di restituire alla persona in stato di vulnerabilità la consapevolezza del proprio potere. In altri termini si tratta di agire relazioni professionali significative, attraverso il dialogo, per sostenere e consolidare fragili autostime e deboli giudizi di valore sulle proprie capacità. È infatti a partire dalla pista della parola che prende vita una terza pista. Quella del coinvolgimento e dell’attività. Sulla base del dialogo tra persone è, infatti, recuperabile il piano dell’azione del sé e il rafforzamento dell’incertezza identitaria davanti alla prospettiva di un rinnovato progetto di vita.
Vi è infine un’ultima questione connaturale al bisogno di sicurezza-rassicurazione che non va sottovalutata e ha a che vedere, a mio avviso, con alcune forme di controllo sociale, che paradossalmente diventano forme di garanzia della libertà del cittadino.
A tal proposito urge, nelle prassi quotidiane che coinvolgono l’agire professionale e le singole pianificazioni e/o progettazioni, il recupero di una “zona di lavoro riflessivo” assimilabile al “pensatoio” che tanti di noi educatori annoverano tra gli strumenti di lavoro.
Credo infatti, possa essere utile recuperare il senso della prassi quotidiana, distinguendo in essa, le espressioni che rappresentano l’esercizio della libertà dell’altro da quelle che, invece, garantiscono l’ancoraggio dell’altro a pratiche di libertà vigilata.
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Centro Studi Nazionale ANEP
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