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Verona, il bullismo, la violenza, il vuoto...Cosa dicono gli educatori?

Ultimo Aggiornamento: 05/10/2008 22:43
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Città: BOLOGNA
Età: 31
Sesso: Femminile
03/06/2008 22:28

Un primo contributo al dibattito
Ricevo e pubblico nel forum la prima riflessione che è pervenuta al Centro Studi da parte di Tiziana Monticone, educatrice piemontese socia anep. Spero che ne arrivino molti, molti altri...

SICUREZZA, RUOLI IDENTITARI E PROGETTAZIONE DIALOGICA

In questo periodo se si accende la televisione o se si legge un quotidiano, come un tormentone compare la parola “sicurezza”. Tutti l’acclamano, tutti la chiedono a gran voce, tutti la pretendono, tutti la desiderano e la sognano.

Ma cosa significa sicurezza? Cosa significa per me, educatore professionale, lavorare per la sicurezza sociale? Cosa significa per me, donna-lavoratrice, richiedere sicurezza? Cosa significa per me, mamma, desiderare sicurezza per i miei figli?

Si fanno strada, nel momento in cui il nostro “io “ riveste ruoli identitari differenti sensi e significati diversi, tutti racchiusi nello stesso concetto di “sicurezza sociale”.

Come educatore professionale lavorare per la sicurezza sociale significa tessere relazioni con l’altro e con i territori in cui si opera, per costruire un “mondo possibile”, cioè un servizio capace di rispondere ai bisogni ed ai desideri delle persone; come donna-lavoratrice richiedere sicurezza significa esigere un posto di lavoro “sicuro”, cioè un reddito dignitoso, un contratto a tempo indeterminato, una struttura a norma, la ricerca di un costante equilibrio per la conciliazione del tempo-lavoro e del tempo-familiare; come mamma, esigere “sicurezza” per i propri figli significa desiderare di vivere in un quartiere dove si possa “stare al sicuro”, dove i bambini possano ritornare a giocare in strada, ad andare a scuola da soli facendo “solo” attenzione ad attraversare la strada sulle strisce pedonali e/o allo scattare del semaforo verde.

Nel momento in cui si riveste un ruolo piuttosto che un altro prevale un senso, un significato e rimangono sullo sfondo gli altri. Ne conseguono altresì assunzioni di responsabilità molto diverse: prendersi cura dell’Altro e del territorio, prendersi cura del proprio Sé lavorativo-professionale, prendersi cura dei propri figli, della loro incolumità.

Ma che cosa accomuna le tre visioni, le tre rappresentazioni? E come far dialogare queste “mappe” con le mappe cognitive ed emotive degli altri? (Siano essi utenti-clienti, cittadini, responsabili, amministratori, figli, vicini)?

Tutte le “visioni” sembrano accomunate dal desiderio di protezione, dal desiderio di garanzie per sé e per gli altri.
E chi può dare queste garanzie? E’ giusto che qualcuno (i carabinieri, la polizia, i Servizi) diano sicurezza o è corretto pensare che la sicurezza vada costruita dai diversi attori sociali ognuno rivestendo l’abito del proprio ruolo personale e professionale?
Perché devo pensare di “fare pulizia” etnica per risolvere tutti i problemi di sicurezza? Siamo sicuri che eliminando il diverso da noi (lo straniero, il rom, il tossicodipendente) si costruiscano città e quartieri più sicuri?

Quando una mamma, un papà chiedono sicurezza ai Servizi, a cosa fanno riferimento? Quali le loro idee implicite? Quali le proiezioni dell’operatore sociale sulla loro richiesta? Come può dialogare l’idea di sicurezza del professionista con l’idea di chi ci sta di fronte?
Solo attraverso lo sforzo di costruire un significato “sufficientemente condiviso” del concetto di sicurezza sociale si possono tentare delle soluzioni, cioè delle risposte, almeno parziali, al problema della sicurezza nell’ottica della gestione comune del fenomeno e non nell’ottica della pretesa della risposta pre-definita da altri (“devi darmi sicurezza”) o della pretesa della ricerca maieutica della soluzione a tutti i costi (“devi cercarti la sicurezza attraverso i tuoi mezzi, le tue risorse”).

Solo ripartendo dal “basso” e dal quotidiano e tenendo insieme il micro ed il macro, il singolo ed il collettivo, il contesto locale ed il fenomeno nella sua globalità, si può riconsiderare il tema della sicurezza nella sua complessità e non come mero controllo sociale. Per accogliere questa sfida la metodologia della progettazione dialogica può rappresentare la via strategica per raggiungere lo scopo: “la progettazione come processo volto a costruire significati condivisi e co-costruiti attiva un processo in cui tutti diventano attori attivi della progettualità; questi sin dall’inizio partecipano a tutte le parti del progetto: dalla definizione di ciò che costituisce la situazione-problema alla messa a punto delle strategie per risolverlo o per trovare un modo comune per gestirlo, dall’applicazione delle decisioni alla valutazione dei risultati ottenuti” (D’Angella F., Orsenigo A., “La progettazione sociale”, pp. 64-65).

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